La rivoluzione industriale fu un processo di evoluzione economica e di industrializzazione della società che da agricolo-artigianale-commerciale si trasformò in un sistema industriale moderno caratterizzato dall’uso generalizzato di macchineazionate da energia meccanica e dall’utilizzo di nuove fonti energetiche inanimate (come, ad esempio, i combustibili fossili), il tutto favorito da una forte componente di innovazione tecnologica e accompagnato da fenomeni di crescita, sviluppo economico e profonde modificazioni socio-culturali e anche politiche.
È consuetudine distinguere tra prima e seconda rivoluzione industriale. La prima interessò prevalentemente il settore tessile–metallurgico con l’introduzione della spoletta volante e della macchina a vapore nella seconda metà del ‘700. La seconda rivoluzione industriale viene fatta convenzionalmente partire dal 1870 con l’introduzione dell’elettricità, dei prodotti chimici e del petrolio. Talvolta ci si riferisce agli effetti dell’introduzione massiccia dell’elettronica, delle telecomunicazioni e dell’informatica nell’industria come alla terza rivoluzione industriale, che viene fatta partire dal 1970[1
La rivoluzione industriale comportò una profonda e irreversibile trasformazione che partì dal sistema produttivo fino a coinvolgere il sistema economico nel suo insieme e l’intero sistema sociale. L’avvento della fabbrica e della macchina modificò i rapporti fra i settori produttivi. Nacque così la classe operaia che ricevette, in cambio del proprio lavoro e del tempo messo a disposizione per il lavoro in fabbrica, un salario. Sorse anche il capitalista industriale, imprenditore proprietario della fabbrica e dei mezzi di produzione, che mirava a incrementare il profitto della propria attività.
Come accade in molti processi storici, per la rivoluzione industriale non esiste una data di inizio certa, anche se l’invenzione cardine è quella del motore a vapore. Ogni mutamento profondo dell’economia è però influenzato dalle trasformazioni precedenti, e così la rivoluzione industriale viene considerata da alcuni studiosi come l’ultimo momento di una serie di cambiamenti che trasformarono l’Europa da terra povera, sottosviluppata e poco popolata all’inizio del Medioevo nella zona più ricca e sviluppata del mondo nel corso dell’Ottocento. L’accumulo di capitale incamerato in seguito ai commerci e la disponibilità di ingenti quantità di acciaio e carbone nei paesi del Nord, facilmente trasportabili attraverso una fitta rete di canali navigabili, resero possibili gli investimenti necessari alla nascita delle macchine a vapore.
Da un punto di vista economico, l’elemento che caratterizza la Nella Francia del XVIII secolo, in base al diritto divino dei re, il potere politico risiedeva nella monarchia assoluta, rappresentata da Luigi XVI. Salvo alcune eccezioni, tutto il sistema istituzionale francese si compendiava nella figura del Re, che, nelle parole di Jean Bodin, era l’immagine di Dio in terra[4].
Il Re aveva il comando supremo dell’esercito e, ogni cosa decidessero i tribunali, poteva usare il suo potere di justice retenue per prevenire o annullare ogni sentenza e richiamare ogni causa dalle corti ordinarie al Consiglio con una lettre de cachet[4].
L’autorità del sovrano non era quella di un capo titolare di un regime amministrativo ma l’esercizio personale del proprio bon plaisir: governando come individuo, il re investiva ogni funzionario, secondo l’ordine e grado, di una frazione della propria autorità chiamandolo ad agire in base al potere e alle istruzioni discrezionali ricevute. Aveva il solo limite di non poter licenziare i funzionari, dato che molti di questi accedevano alla carica pagando una somma corrispondente al valore di mercato[4].
Il dettaglio, il potere esecutivo impersonato dal Re era esercitato attraverso numerosi consigli: il Conseil d’en haut o Conseil secret era presieduto dal Re e sovrintendeva alle principali questioni di governo ed alla politica estera, il Conseil de Dépeches presiedeva all’amministrazione interna e ai ricorsi giudiziari, il Conseil de Finances ed il Conseil de Commerce erano specializzati nelle materie economiche, il Conseil de Consience era competente nella materia dei benefici ecclesiastici, infine il Conseil de Partis esercitava la giurisdizione privata del sovrano e dirimeva i conflitti di competenza giurisdizionali[4].
Durante il regno di Luigi XIV, tuttavia, i consigli persero buona parte della propria importanza e prestigio in favore dei quattro ministri di stato, ovvero Affari esteri, Guerra, Marina, Maison du Roi (preposto alla sicurezza della Corte e della Capitale) e del Controllore generale delle finanze. Questi, nominati e consultati direttamente dal sovrano, a loro volta avevano a disposizione uffici e personale autonomo[5].
Infine, non c’era un Primo Ministro: i sovrani, da Luigi XIV in poi, erano soliti trattare gli affari di stato con i singoli ministri. Il coordinamento dell’intero governo dipendeva dalle capacità del sovrano[5].
La società era suddivisa in tre classi: la nobiltà, il clero e il terzo stato. Quest’ultimo, che rappresentava il 98% circa della popolazione, racchiudeva un assortimento eterogeneo di ceti sociali, dagli strati più abbienti della borghesia fino a quelli più poveri e disagiati del sottoproletariato, tutti accomunati però da una posizione subalterna alle precedenti classi, in quanto isolati dalla sfera del potere e sottoposti a un regime fiscale più esoso e iniquo in confronto ai privilegi di aristocratici ed ecclesiastici.[6]
Una serie di problemi economici provocarono malcontento e disordini nella popolazione: ci fu dapprima il crollo dei prezzi agricoli della viticoltura dal 1778, nel 1785 la siccità provocò una enorme moria del bestiame e dal 1786 la produzione industriale entrò in crisi. Nel 1788, infine, un pessimo raccolto causò una grande crisi che fece aumentare il prezzo del pane fino a quattro soldi per libbra nella sola Parigi e a otto in svariate province del Regno; i lavoratori salariati vennero quindi ridotti alla fame.[7]
La situazione economica fu esacerbata dalla gravissima crisi finanziaria iniziata sotto il regno di Luigi XV e progressivamente aggravatasi a seguito delle enormi spese sostenute per la guerra anglo-francese[8]. combattuta tra il 1778 e il 1783, e che non avevano reso alcun vantaggio al paese, tranne che per la restituzione da parte del Regno Unito delle colonie del Senegal e di Tobago[9].
La necessità di risolvere pertanto la gravissima crisi in cui la Francia era precipitata non trovò soluzione nell’operato dei successori di Luigi XIV. Egual fallimento ebbero poi i tentativi di riforma al sistema giudiziario e fiscale.
Perno del sistema fiscale era la taille, il cui gettito globale veniva fissato anno per anno dal Consiglio delle Finanze e poi ripartito fra le varie généralités su basi profondamente inique: città come Parigi, Orléans, Rouen e Lione godevano piena esenzione; altri centri urbani come Bordeaux e Grenoble versavano una somma forfettaria o un’addizionale agli octroi (le accise sui beni commestibili introdotti nei centri urbani)[10].
Laddove il tributo era calcolato su base personale, nobili, clero e numerosi titolari di uffici pubblici avevano ottenuto una piena esenzione mentre negli altri casi era pressoché impossibile accertare la corretta base imponibile, data la mancanza di registri catastali aggiornati. A causa di ciò, l’onere della taille gravava principalmente sulla popolazione delle campagne ed i tentativi della corte di introdurre correttivi quali la capitazione (1695) o la dixiéme, un’imposta pari al 10% di tutti i redditi (1710), senza eccezione alcuna, avevano avuto vita breve, data la forte opposizione di nobiltà e clero[10].
L’iniquità del sistema era aggravata da un vasto e complicato sistema di imposte indirette: l’imposta sul sale, la gabelle (gettito passato da 23 a 50 milioni di livre tra il 1715 ed il 1789) era riscossa con un trattamento così discriminatorio tra le varie regioni del paese (ben cinque regimi differenti) che il prezzo finale del sale poteva variare da mezzo soldo fino a dodici o tredici soldi la libbra, creando così un forte e regolare contrabbando di sale; le traites e le aides, rispettivamente i dazi riscossi alla frontera o alle barriere interne e le accise sui beni di consumo (quali bevande, tabacco, ferro e cuoio) erano profondamente regressivi ed aumentavano il prezzo delle merci all’interno del paese fino al punto da renderle proibitive per i più poveri[11].
Quanto al resto, il tesoro integrava le entrate attraverso i diritti di bollo, la lotteria, la vendita di uffici pubblici ed il don gratuit (un donativo di 2 -3 milioni versato dal clero, che, però godeva di circa 120 milioni annui di livre di entrate)[12]. Nel 1749 fu introdotta, su impulso del controllore generale Machault d’Arnouville, la vingtiéme, un’imposta universale pari al 5% di tutti i redditi, ma l’efficacia della nuova imposta fu notevolmente compromessa allorché il Parlamento di Parigi rifiutò l’estensione alle proprietà e ai redditi fondiari del clero[12].
In conclusione, il complicato ed iniquo sistema fiscale non era in grado di garantire né un’efficace mobilitazione di risorse economiche in caso di guerra né di contrastare il deficit del Paese e la continua crescita del debito pubblico per tutto il XVIII secolo[12][13].
L’assetto istituzionale dello stato era, inoltre, minato dalla presenza dei parlamenti che assolvevano a funzioni giudiziarie (religione, commercio, industria, morale censura) e avevano avuto un ruolo estremamente importante nell’estensione dell’autorità del sovrano: i membri dei parlamenti, oltre 2.000, in origine venivano reclutati tra gli avvocati ed i letterati ma in seguito la carica divenne ereditaria oppure acquisita tramite acquisto, fatto che rendeva i parlamentari assai vicini agli interessi dei ceti privilegiati[14].
Tra queste corti sovrane spiccava il Parlamento di Parigi, che aveva giurisdizione su oltre un terzo del Paese e aveva mantenuto il diritto di pronunziare rimostranze nei confronti del Sovrano e la prerogativa di rifiutare la registrazione dei decreti regi; il sovrano aveva pur sempre la facoltà di imporre la registrazione mediante la procedura formale del lit de justice, così come di esiliare magistrati o perfino un’intera corte, ma i Parlamenti potevano replicare sospendendo i procedimenti giudiziari o sobillando l’opinione pubblica attraverso la pubblicazione delle rimostranze[14].
Durante il lungo regno personale di Luigi XIV i parlamenti avevano perso buona parte del loro prestigio, ma con i regni di Luigi XV e Luigi XVI divennero il centro dell’opposizione alle riforme finanziarie e all’opera di unificazione amministrativa e legislativa, aggravando l’instabilità della monarchia[14].
L’avversione dei sudditi francesi nei confronti della monarchia aumentò grazie anche alla presenza impopolare di Maria Antonietta – moglie di Luigi XVI – che, legatissima alla sua patria austriaca e perciò integratasi scarsamente nella società francese, veniva chiamata con disprezzo dal popolo francese l’Autrichienne (letteralmente “l’Austriaca”, che veniva però pronunciato marcando di proposito la seconda parte della parola, chienne, in quanto significherebbe in francese “cagna”).[15]
Maria Antonietta (opera di Élisabeth Vigée Le Brun, 1787)
Al contempo s’era andata affermando da svariati anni ormai, soprattutto in Francia, una nuova e vivace cultura filosofico-politica, l’Illuminismo, alla cui base v’erano tre principi fondamentali: razionalismo, egualitarismo e contrattualismo (quest’ultimo era una corrente di pensiero nata dal rifiuto della monarchia assoluta, basata sull’idea della politica intesa come espressione d’un contratto stipulato liberamente tra popolo e governanti).
La filosofia degli illuministi si diffuse fino ai ceti più alti della società (borghesia e nobiltà liberale), spingendoli così a farsi fautori d’un modello politico del tutto alternativo a quello assolutistico francese, che si rifacesse cioè a un modello di monarchia parlamentare sulla falsariga di quello britannico, e con un’attenzione rivolta alla centralità del cittadino quale detentore naturale di tutta una serie di diritti e doveri; i filosofi illuministi difesero infatti l’idea che il potere sovrano supremo risiedesse nella nazione intesa come somma della sua popolazione tutta, non in una dinastia di monarchi separata dal resto dei comuni mortali. Oltre a ciò, la buona riuscita della Rivoluzione americana, avvenuta poco prima di quella francese, non fece che alimentare ulteriormente la forte propensione alla ribellione dei sudditi francesi.[16] è il salto di qualità nella capacità di produrre beni, cui si assiste in Gran Bretagna a partire dalla seconda metà del Settecento. Più precisamente la crescita dell’economia inglese nel periodo 1760-1830 è la più alta registrata fino a quel momento. In altri paesi il processo di industrializzazione in epoche successive dà analogamente origine ad elevati tassi di crescita dell’economia.
Sostanzialmente, la rivoluzione industriale costituì l’approdo dell’aumento di conoscenze scientifiche sul mondo naturale e sulle sue caratteristiche, derivante dalla rivoluzione scientifica. Fu infatti il nuovo metodo scientifico iniziato da Galileo Galilei a portare ad una sensibile (e senza precedenti) crescita delle conoscenze che gli europei avevano sulla natura e soprattutto sui materiali e le loro proprietà. Condizioni particolarmente favorevoli nell’Inghilterra dell’epoca consentirono poi a tali conoscenze scientifiche di tramutarsi in conoscenze tecniche e tecnologiche, finché esse cominciarono ad essere applicate nelle prime fabbriche tessili e nell’industria siderurgica per una produzione di ferro ed acciaio che non ebbe avuto paragoni nella precedente storia dell’umanità.
Dal punto di vista tecnologico la rivoluzione industriale si caratterizza, come già detto, per l’introduzione della macchina a vapore. Nella storia dell’umanità il maggior vincolo alla crescita della produzione di beni era stato, infatti, quello energetico. Per molti secoli si disponeva soltanto dell’energia meccanica muscolare degli uomini e animali, e questo rimanere legati al lavoro manuale, oltre a tutti i problemi che ne derivavano, non dava la possibilità di incrementare la produzione. La progressiva introduzione, a partire dal Medioevo, del mulino ad acqua e del mulino a vento rappresenta la prima innovazione di rilievo.
L’energia abbondante offerta dalla macchina a vapore viene applicata alle lavorazioni tessili. Si rende possibile una più efficiente organizzazione della produzione grazie alla divisione del lavoro e allo spostamento delle lavorazioni all’interno di fabbriche appositamente costruite, nonché alle estrazioni minerarie e ai trasporti. Le attività minerarie beneficiano della forza della macchina a vapore nella fase di estrazione dell’acqua dalle miniere, permettendo di scavare a maggiore profondità, come anche nel trasporto del minerale estratto. I primi vagoni su rotaia servono a portar fuori dalle miniere il minerale, poi a portarlo a destinazione. Solo in un secondo tempo il trasporto su rotaia si converte nel trasporto di passeggeri. La rivoluzione industriale produce non solo effetti in campo economico e tecnologico, ma anche un aumento dei consumi e della quota del reddito, dei rapporti di classe, della cultura, della politica, delle condizioni generali di vita, con conseguenze espansive a livello demografico.
La rivoluzione americana avvenne nel Nord America occupato dalle colonie britanniche tra il 1765 e il 1783. Gli eventi della rivoluzione portarono alla guerra d’indipendenza americana (1775-1783), che si concluse con la vittoria delle Tredici colonie e la sconfitta degli inglesi. Gli eventi della rivoluzione portarono gli americani a firmare il trattato che sancì la loro indipendenza dal Regno Unito e che portò alla nascita degli Stati Uniti d’America, la prima nazione al mondo basata su una democrazia liberale di stampo costituzionale.[1][2]
Lo scoppio della rivoluzione
Durante la seconda metà del Settecento, i coloni giunti nelle Americhe non volevano essere tassati dal Parlamento britannico, un organismo politico con cui non si identificavano più. Prima degli anni sessanta del Settecento, le colonie britanniche oltreoceano erano gestite dalle legislature locali a stretto contatto con la Corona britannica, che allora stava seguendo un principio di “salutare negligenza” (ovvero di attenta tutela e pragmatica tolleranza) nei confronti dei suoi territori.[3] L’approvazione dello Stamp Act del 1765, che imponeva tasse interne alle colonie, spinse i rappresentanti delle stesse a riunirsi a New York nell’assemblea conosciuta come Stamp Act Congress, durante la quale riuscirono a riaffermare il diritto di poter essere tassati solo con leggi volute durante i raduni fra i capi coloniali,[4] allentando così le tensioni interne. Tuttavia, l’emanazione dei Townshend Acts del 1767 fu all’origine di disordini che spinsero il governo britannico a inviare a Boston delle truppe militari durante il 1768.[5] Una parentesi particolarmente drammatica fu il massacro di Boston del 1770, durante il quale cinque civili persero la vita. Ad esso seguirono l’incendio della goletta Gaspee, avvenuto a Rhode Island nel 1772,[6] e il Boston Tea Party del mese di dicembre del 1773, entrambi eventi che aumentarono ulteriormente il clima di tensione. In segno di risposta, gli inglesi fecero chiudere il porto di Boston e promulgarono una serie di leggi punitive che revocavano di fatto i diritti di autogoverno della Colonia della Baia del Massachusetts.[7] Altre colonie decisero di supportare gli abitanti della Massachusetts Bay, e alcuni leader patrioti americani istituirono il proprio governo alla fine del 1774 in occasione del congresso continentale per coordinare le loro operazioni militari contro la Gran Bretagna; i coloni che invece restavano fedeli alla Corona inglese prendevano il nome di lealisti o tories.
Ritratto di George Washington (1803) di Gilbert Stuart
La guerra civile scoppiò quando i soldati britannici giunti nelle Americhe per appropriarsi dei rifornimenti militari in un deposito di armi ebbero un violento scontro con la milizia patriota di Lexington e Concord il 19 aprile 1775.[8] Grazie al supporto delle neonate forze armate coloniali, i militi sconfissero gli inglesi a Boston. I coloni formarono intanto un congresso provinciale che deteneva il controllo degli ex governi coloniali, ruppero ogni rapporto di fedeltà con il Regno Unito e formarono l’esercito continentale guidato da George Washington.[9] I congressisti consideravano il sovrano britannico Giorgio III del Regno Unito un tiranno che calpestava i diritti dei coloni perché inglesi e, durante il 4 luglio 1776, firmarono la carta con cui rivendicavano la loro indipendenza dai britannici. I patrioti professavano la filosofie politiche del liberalismo e del repubblicanesimo, rinnegavano ogni forma di monarchia e aristocrazia, e sostenevano che tutti gli uomini sono uguali e hanno quindi pari diritti.
Durante i mesi invernali del 1775 e il 1776, i patrioti tentarono senza successo di invadere il Quebéc.[10] L’esercito continentale americano costrinse i britannici a lasciare Boston nel mese di marzo del 1776, ma, durante l’estate di quell’anno, gli inglesi conquistarono la città di New York e si servirono della sua area portuale per le loro missioni navali nel corso di tutta la rivoluzione. La Royal Navy fece chiudere diversi porti e riuscì a conquistare alcune città, ma fallì nei suoi tentativi di fermare l’esercito di George Washington. L’esercito continentale sconfisse l’armata britannica durante la battaglia di Saratoga nel mese di ottobre del 1777.#cite_note-11″>[11] I britannici decisero di dispiegare le forze contro la Francia, che si era intanto alleata con gli Stati Uniti.[12] La Gran Bretagna tentò di mantenere il controllo degli stati del sud grazie al sostegno dei lealisti, e il punto focale del conflitto si spostò a sud. Durante i primi mesi del 1780, il britannico Charles Cornwallis sconfisse gli americani a Charleston, nella Carolina del Sud, ma non riuscì ad arruolare abbastanza volontari fra i lealisti per mantenere il controllo del territorio. Durante l’autunno del 1781, gli eserciti degli Stati Uniti e della Francia riuscirono a fermare le forze britanniche durante la battaglia di Yorktown.[13] La fine della guerra civile ebbe fine quando, il 3 settembre del 1783, venne firmato il trattato di Parigi, che rendeva gli ex territori coloniali britannici una nazione a sé stante. Gli Stati Uniti occuparono quasi tutti i territori a est del fiume Mississippi e a sud dei Grandi Laghi, mentre gli inglesi mantennero il controllo del Canada settentrionale. La Spagna, che aveva preso parte alla guerra contro il Regno Unito senza però allearsi con gli americani, ottenne la Florida.[14]
La Rivoluzione francese fu un periodo di sconvolgimento sociale, politico e culturale estremo, e a tratti violento, avvenuto in Francia tra il 1789 e il 1799. In storiografia è lo spartiacque tra età moderna ed età contemporanea.[1] È detta anche Prima rivoluzione francese o Grande rivoluzione francese, per distinguerla dalla Rivoluzione di luglio del 1830 (Seconda rivoluzione francese) e dai moti rivoluzionari francesi del 1848 (Terza rivoluzione francese), che fuono l’episodio locale delle rivolte e insurrezioni europee dette Primavera dei popoli.
Fu un evento assai complesso e articolato in varie fasi. Le sue principali conseguenze immediate furono: l’abolizione della monarchia assoluta capetingia e la rapida proclamazione della repubblica; l’eliminazione delle basi economiche e sociali dell’Ancien Régime, il sistema politico e sociale precedente, ritenuto colpevole della disuguaglianza e povertà dei suoi sudditi; la stesura della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, futuro fondamento delle costituzioni moderne.[2]
La Rivoluzione francese finì con il periodo imperiale–napoleonico e poi la Restaurazione da parte dell’aristocrazia europea. E tuttavia, insieme a quella americana, segnò il declino dell’assolutismo e ispirò le successive rivoluzioni borghesi liberali e democratiche del XIX secolo (i cosiddetti moti rivoluzionari), aprendo la strada a un nuovo sistema politico basato sul concetto di Stato di diritto o Stato liberale, in cui la borghesia diviene la classe dominante. Questo fu a sua volta la premessa per la nascita dei moderni stati democratici del XX secolo.[3]
Nella Francia del XVIII secolo, in base al diritto divino dei re, il potere politico risiedeva nella monarchia assoluta, rappresentata da Luigi XVI. Salvo alcune eccezioni, tutto il sistema istituzionale francese si compendiava nella figura del Re, che, nelle parole di Jean Bodin, era l’immagine di Dio in terra[4].
Il Re aveva il comando supremo dell’esercito e, ogni cosa decidessero i tribunali, poteva usare il suo potere di justice retenue per prevenire o annullare ogni sentenza e richiamare ogni causa dalle corti ordinarie al Consiglio con una lettre de cachet[4].
L’autorità del sovrano non era quella di un capo titolare di un regime amministrativo ma l’esercizio personale del proprio bon plaisir: governando come individuo, il re investiva ogni funzionario, secondo l’ordine e grado, di una frazione della propria autorità chiamandolo ad agire in base al potere e alle istruzioni discrezionali ricevute. Aveva il solo limite di non poter licenziare i funzionari, dato che molti di questi accedevano alla carica pagando una somma corrispondente al valore di mercato[4].
Il dettaglio, il potere esecutivo impersonato dal Re era esercitato attraverso numerosi consigli: il Conseil d’en haut o Conseil secret era presieduto dal Re e sovrintendeva alle principali questioni di governo ed alla politica estera, il Conseil de Dépeches presiedeva all’amministrazione interna e ai ricorsi giudiziari, il Conseil de Finances ed il Conseil de Commerce erano specializzati nelle materie economiche, il Conseil de Consience era competente nella materia dei benefici ecclesiastici, infine il Conseil de Partis esercitava la giurisdizione privata del sovrano e dirimeva i conflitti di competenza giurisdizionali[4].
Durante il regno di Luigi XIV, tuttavia, i consigli persero buona parte della propria importanza e prestigio in favore dei quattro ministri di stato, ovvero Affari esteri, Guerra, Marina, Maison du Roi (preposto alla sicurezza della Corte e della Capitale) e del Controllore generale delle finanze. Questi, nominati e consultati direttamente dal sovrano, a loro volta avevano a disposizione uffici e personale autonomo[5].
Infine, non c’era un Primo Ministro: i sovrani, da Luigi XIV in poi, erano soliti trattare gli affari di stato con i singoli ministri. Il coordinamento dell’intero governo dipendeva dalle capacità del sovrano[5].
La società era suddivisa in tre classi: la nobiltà, il clero e il terzo stato. Quest’ultimo, che rappresentava il 98% circa della popolazione, racchiudeva un assortimento eterogeneo di ceti sociali, dagli strati più abbienti della borghesia fino a quelli più poveri e disagiati del sottoproletariato, tutti accomunati però da una posizione subalterna alle precedenti classi, in quanto isolati dalla sfera del potere e sottoposti a un regime fiscale più esoso e iniquo in confronto ai privilegi di aristocratici ed ecclesiastici.[6]
Una serie di problemi economici provocarono malcontento e disordini nella popolazione: ci fu dapprima il crollo dei prezzi agricoli della viticoltura dal 1778, nel 1785 la siccità provocò una enorme moria del bestiame e dal 1786 la produzione industriale entrò in crisi. Nel 1788, infine, un pessimo raccolto causò una grande crisi che fece aumentare il prezzo del pane fino a quattro soldi per libbra nella sola Parigi e a otto in svariate province del Regno; i lavoratori salariati vennero quindi ridotti alla fame.[7]
La situazione economica fu esacerbata dalla gravissima crisi finanziaria iniziata sotto il regno di Luigi XV e progressivamente aggravatasi a seguito delle enormi spese sostenute per la guerra anglo-francese[8]. combattuta tra il 1778 e il 1783, e che non avevano reso alcun vantaggio al paese, tranne che per la restituzione da parte del Regno Unito delle colonie del Senegal e di Tobago[9].
La necessità di risolvere pertanto la gravissima crisi in cui la Francia era precipitata non trovò soluzione nell’operato dei successori di Luigi XIV. Egual fallimento ebbero poi i tentativi di riforma al sistema giudiziario e fiscale.
Perno del sistema fiscale era la taille, il cui gettito globale veniva fissato anno per anno dal Consiglio delle Finanze e poi ripartito fra le varie généralités su basi profondamente inique: città come Parigi, Orléans, Rouen e Lione godevano piena esenzione; altri centri urbani come Bordeaux e Grenoble versavano una somma forfettaria o un’addizionale agli octroi (le accise sui beni commestibili introdotti nei centri urbani)[10].
Laddove il tributo era calcolato su base personale, nobili, clero e numerosi titolari di uffici pubblici avevano ottenuto una piena esenzione mentre negli altri casi era pressoché impossibile accertare la corretta base imponibile, data la mancanza di registri catastali aggiornati. A causa di ciò, l’onere della taille gravava principalmente sulla popolazione delle campagne ed i tentativi della corte di introdurre correttivi quali la capitazione (1695) o la dixiéme, un’imposta pari al 10% di tutti i redditi (1710), senza eccezione alcuna, avevano avuto vita breve, data la forte opposizione di nobiltà e clero[10].
L’iniquità del sistema era aggravata da un vasto e complicato sistema di imposte indirette: l’imposta sul sale, la gabelle (gettito passato da 23 a 50 milioni di livre tra il 1715 ed il 1789) era riscossa con un trattamento così discriminatorio tra le varie regioni del paese (ben cinque regimi differenti) che il prezzo finale del sale poteva variare da mezzo soldo fino a dodici o tredici soldi la libbra, creando così un forte e regolare contrabbando di sale; le traites e le aides, rispettivamente i dazi riscossi alla frontera o alle barriere interne e le accise sui beni di consumo (quali bevande, tabacco, ferro e cuoio) erano profondamente regressivi ed aumentavano il prezzo delle merci all’interno del paese fino al punto da renderle proibitive per i più poveri[11].
Quanto al resto, il tesoro integrava le entrate attraverso i diritti di bollo, la lotteria, la vendita di uffici pubblici ed il don gratuit (un donativo di 2 -3 milioni versato dal clero, che, però godeva di circa 120 milioni annui di livre di entrate)[12]. Nel 1749 fu introdotta, su impulso del controllore generale Machault d’Arnouville, la vingtiéme, un’imposta universale pari al 5% di tutti i redditi, ma l’efficacia della nuova imposta fu notevolmente compromessa allorché il Parlamento di Parigi rifiutò l’estensione alle proprietà e ai redditi fondiari del clero[12].
In conclusione, il complicato ed iniquo sistema fiscale non era in grado di garantire né un’efficace mobilitazione di risorse economiche in caso di guerra né di contrastare il deficitdel Paese e la continua crescita del debito pubblico per tutto il XVIII secolo[12][13].
L’assetto istituzionale dello stato era, inoltre, minato dalla presenza dei parlamenti che assolvevano a funzioni giudiziarie (religione, commercio, industria, morale censura) e avevano avuto un ruolo estremamente importante nell’estensione dell’autorità del sovrano: i membri dei parlamenti, oltre 2.000, in origine venivano reclutati tra gli avvocati ed i letterati ma in seguito la carica divenne ereditaria oppure acquisita tramite acquisto, fatto che rendeva i parlamentari assai vicini agli interessi dei ceti privilegiati[14].
Tra queste corti sovrane spiccava il Parlamento di Parigi, che aveva giurisdizione su oltre un terzo del Paese e aveva mantenuto il diritto di pronunziare rimostranze nei confronti del Sovrano e la prerogativa di rifiutare la registrazione dei decreti regi; il sovrano aveva pur sempre la facoltà di imporre la registrazione mediante la procedura formale del lit de justice, così come di esiliare magistrati o perfino un’intera corte, ma i Parlamenti potevano replicare sospendendo i procedimenti giudiziari o sobillando l’opinione pubblica attraverso la pubblicazione delle rimostranze[14].
Durante il lungo regno personale di Luigi XIV i parlamenti avevano perso buona parte del loro prestigio, ma con i regni di Luigi XV e Luigi XVI divennero il centro dell’opposizione alle riforme finanziarie e all’opera di unificazione amministrativa e legislativa, aggravando l’instabilità della monarchia[14].
L’avversione dei sudditi francesi nei confronti della monarchia aumentò grazie anche alla presenza impopolare di Maria Antonietta – moglie di Luigi XVI – che, legatissima alla sua patria austriaca e perciò integratasi scarsamente nella società francese, veniva chiamata con disprezzo dal popolo francese l’Autrichienne (letteralmente “l’Austriaca”, che veniva però pronunciato marcando di proposito la seconda parte della parola, chienne, in quanto significherebbe in francese “cagna”).[15]
Maria Antonietta (opera di Élisabeth Vigée Le Brun, 1787)
Al contempo s’era andata affermando da svariati anni ormai, soprattutto in Francia, una nuova e vivace cultura filosofico-politica, l’Illuminismo, alla cui base v’erano tre principi fondamentali: razionalismo, egualitarismo e contrattualismo (quest’ultimo era una corrente di pensiero nata dal rifiuto della monarchia assoluta, basata sull’idea della politica intesa come espressione d’un contratto stipulato liberamente tra popolo e governanti).
La filosofia degli illuministi si diffuse fino ai ceti più alti della società (borghesia e nobiltà liberale), spingendoli così a farsi fautori d’un modello politico del tutto alternativo a quello assolutistico francese, che si rifacesse cioè a un modello di monarchia parlamentare sulla falsariga di quello britannico, e con un’attenzione rivolta alla centralità del cittadino quale detentore naturale di tutta una serie di diritti e doveri; i filosofi illuministi difesero infatti l’idea che il potere sovrano supremo risiedesse nella nazione intesa come somma della sua popolazione tutta, non in una dinastia di monarchi separata dal resto dei comuni mortali. Oltre a ciò, la buona riuscita della Rivoluzione americana, avvenuta poco prima di quella francese, non fece che alimentare ulteriormente la forte propensione alla ribellione dei sudditi francesi.[16]