Direttissimo (Dino Buzzati)
Poco prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale anticipa il futuro con Il deserto dei tartari; con vent’anni di prevede il ’68 e l’Autunno Caldo in Paura alla Scala eppure nemmeno questo gli giova: i suoi romanzi, e sopratutto i suoi racconti, non hanno un genere preciso. Sono del terrore, sono fantascienza, sono di sottile critica sociale? Non c’è una nicchia precisa, com’era giusto per uno scrittore che negli anni dell’imperante impegno e realismo guardava oltre.
E dài allora, o treno, non perdiamo un minuto, corri, galoppa. Signor macchinista per piacere non essere avaro di carbone, dà fiato al leviatano. Si udirono dei soffi emessi con precipitazione, i vagoni ebbero un fremito, i pilastri della pensilina si mossero, dapprima lentamente, ad uno ad uno mi sfilarono dinanzi. Poi case case stabilimenti gasometri tettoie case case ciminiere androni case case alberi orticelli case tran tran tran tran i prati la campagna, le nuvole viaggianti nella aperto cielo! Dài macchinista, con l’intera potenza del vapore.
Quando ho scritto il post su quanto lontano può arrivare un treno in un giorno ho subito pensato a Direttissimo, racconto di Buzzati compreso nella raccolta Sessanta racconti, premio Strega 1958.
Volammo attraverso le campagne e i fili telegrafici danzavano su e giù con quei loro soprassalti da epilettico, si vedevano praterie sconfinate e sempre meno case sempre meno perchè ci inoltravamo nelle terre del nord le quali si aprono a ventaglio verso la solitudine ed il mistero.
Come definirlo? Un racconto di inquietudine, di pessimismo, di paura? Tutto questo, ed ancora molto di più. Un racconto metaforico su un uomo che prende un treno che non si ferma mai, e più accumula ritardo meno egli vuole scendere. Un viaggio verso l’ignoto, verso un futuro radioso che diventa sempre più indistinto?
Fuggendo il treno lei ben presto divenne ancora più piccola di quello che effettivamente era, una figurina afflitta e immobile sul deserto marciapiedi, sotto la neve che cadeva. Poi divenne un punto nero senza volto, una minuscola formica nella vastità dell’universo; e subito svanì nel nulla. Addio.
Con un ritardo di anni e anni accumulati, siamo così di nuovo in viaggio. Per dove? Cala la sera, i vagoni sono gelidi, non c’è rimasto quasi più nessuno. Qua e là, negli angoli negli scompartimenti bui, siedono degli sconosciuti dalle facce pallide e dure che hanno freddo e non lo dicono.
Per dove? Quanto è lontana l’ultima stazione? Ci arriveremo mai? Valeva la pena di fuggire con tanta furia dei luoghi dalle persone amate?
Non vi sto a raccontare altro, nè del racconto, nè del libro, nè di Buzzati: dopo la sua, la mia prosa è ancora più povera. Se però amate la buona letteratura, il brivido, la sorpresa, la profondità… spero questo post vi abbia messo una pulce nell’orecchio!
Il lungo viaggio (Leonardo Sciascia)
Era una notte che pareva fatta apposta, un’oscurità cagliata che a muoversi quasi se ne sentiva
il peso. E faceva spavento, respiro di quella belva che era il mondo, il suono del mare: un respiro che veniva a spegnersi ai loro piedi.
Stavano, con le loro valige di cartone e i loro fagotti, su un tratto di spiaggia pietrosa, riparata da colline, tra Gela e Licata; vi erano arrivati all’imbrunire, ed erano partiti all’alba dai loro paesi; paesi interni, lontani dal mare, aggrumati nell’arida plaga del feudo. Qualcuno di loro, era la prima volta che vedeva il mare: e sgomentava il pensiero di dover attraversarlo tutto, da quella deserta spiaggia della Sicilia, di notte, ad un’altra deserta spiaggia dell’America, pure di notte. Perché i patti erano questi – Io di notte vi imbarco – aveva detto l’uomo: una specie di commesso viaggiatore per la parlantina, ma serio e onesto nel volto – e di notte vi sbarco: sulla spiaggia del Nugioirsi, vi sbarco; a due passi da Nuovaiorche… E chi ha parenti in America, può scrivergli che aspettino alla stazione di Trenton, dodici giorni dopo l’imbarco… Fatevi il conto da voi… Certo, il giorno preciso non posso assicurarvelo: mettiamo che c’è mare grosso, mettiamo che la guardia costiera stia a vigilare… Un giorno più o un giorno meno, non vi fa niente: l’importante è sbarcare in America.
L’importante era davvero sbarcare in America: come e quando non aveva poi importanza. Se ai loro parenti arrivavano le lettere, con quegli indirizzi confusi e sgorbi che riuscivano a tracciare sulle buste, sarebbero arrivati anche loro; “chi ha lingua passa il mare”, giustamente diceva il proverbio. E avrebbero passato il mare, quel grande mare oscuro; e sarebbero approdati agli stori alle farme dell’America, all’affetto dei loro fratelli zii nipoti cugini, alle calde ricche abbondanti case, alle automobili grandi come case.
Duecentocinquantamila lire: metà alla partenza, metà all’arrivo. Le tenevano, a modo di scapolari, tra la pelle e la camicia. Avevano venduto tutto quello che avevano da vendere, per racimolarle: la casa terragna il mulo l’asino le provviste dell’annata il canterano le coltri. I più furbi avevano fatto ricorso agli usurai, con la segreta intenzione di fregarli; una volta almeno, dopo anni che ne subivano angaria: e ne aveva soddisfazione, al pensiero della faccia che avrebbero fatta nell’apprendere la notizia. “Vieni a cercarmi in America, sanguisuga: magari ti ridò i tuoi soldi, ma senza interesse, se ti riesce di trovarmi”. Il sogno dell’America traboccava di dollari: non più, il denaro, custodito nel logoro portafogli o nascosto tra la camicia e la pelle, ma cacciato con noncuranza nelle tasche dei pantaloni, tirato fuori a manciate: come avevano visto fare ai loro parenti, che erano partiti morti di fame, magri e cotti dal sole; e dopo venti o trent’anni tornavano, ma per una breve vacanza, con la faccia piena e rosea che faceva bel contrasto coi capelli candidi.
Erano già le undici. Uno di loro accese la lampadina tascabile: il segnale che potevano venire a prenderli per portarli sul piroscafo. Quando la spense, l’oscurità sembrò più spessa e paurosa. Ma qualche minuto dopo, dal respiro ossessivo del mare affiorò un più umano, domestico suono d’acqua: quasi che vi si riempissero e vuotassero, con ritmo, dei secchi. Poi venne un brusìo, un parlottare sommesso. Si trovarono davanti il signor Melfa, che con questo nome conoscevano l’impresario della loro avventura, prima ancora di aver capito che la barca aveva toccato terra.
– Ci siamo tutti? – domandò il signor Melfa. Accese la lampadina, fece la conta. Ne mancavano due. – Forse ci hanno ripensato, forse arriveranno più tardi… Peggio per loro, in ogni caso. E che ci mettiamo ad aspettarli, col rischio che corriamo?
Tutti dissero che non era il caso di aspettarli.
Se qualcuno di voi non ha il contante pronto – ammonì il signor Melfa – è meglio si metta la strada tra le gambe e se ne torni a casa: che se pensa di farmi a bordo la sorpresa, sbaglia di grosso: io vi riporto a terra com’è vero dio, tutti quanti siete. E che per uno debbano pagare tutti, non è cosa giusta: e dunque chi ne avrà colpa la pagherà per mano mia e per mano dei compagni, una pestata che se ne ricorderà mentre campa; se gli va bene…
Tutti assicurarono e giurarono che il contante c’era, fino all’ultimo soldo.
– In barca – disse il signor Melfa. E di colpo ciascuno dei partenti diventò una informe massa, un
confuso grappolo di bagagli.
– Cristo! E che vi siete portata la casa appresso? – cominciò a sgranare bestemmie, e finì quando tutto
il carico, uomini e bagagli, si ammucchiò nella barca: col rischio che un uomo o un fagotto ne traboccasse fuori. E la differenza tra un uomo e un fagotto era per il signor Melfa nel fatto che l’uomo si portava appresso le duecentocinquatamila lire; addosso, cucite nella giacca o tra la camicia e la pelle. Li conosceva, lui, li conosceva bene: questi contadini zoticoni, questi villani.
Il viaggio durò meno del previsto: undici notti, quella della partenza compresa. E contavano le notti invece che i giorni, poiché le notti erano di atroce promiscuità, soffocanti. Si sentivano immersi nell’odore di pesce di nafta e di vomito come in un liquido caldo nero bitume. Ne grondavano all’alba, stremati, quando salivano ad abbeverarsi di luce e di vento. Ma come l’idea del mare era per loro il piano verdeggiante di messe quando il vento lo sommuove, il mare vero li atterriva: e le viscere gli si strizzavano, gli occhi dolorosamente verminavano di luce se appena indugiavano a guardare.
Ma all’undicesima notte il signor Melfa li chiamò in coperta: e credettero dapprima che fìtte costellazioni fossero scese al mare come greggi; ed erano invece paesi, paesi della ricca America che come gioielli brillavano nella notte. E la notte stessa era un incanto: serena e dolce, una mezza luna che trascorreva tra una trasparente fauna di nuvole, una brezza che allargava i polmoni.
– Ecco l’America – disse il signor Melfa.
– Non c’è pericolo che sia un altro posto? – domandò uno: poiché per tutto il viaggio aveva pensato che nel mare non ci sono nè strade nè trazzere, ed era da dio fare la via giusta, senza sgarrare, conducendo una nave tra cielo ed acqua.
Il signor Melfa lo guardò con compassione, domandò a tutti – E lo avete mai visto, dalle vostre parti, un orizzonte come questo? E non lo sentite che l’aria è diversa? Non vedete come splendono questi paesi?
Tutti convennero, con compassione e risentimento guardarono quel loro compagno che aveva osato una così stupida domanda.
– Liquidiamo il conto – disse il signor Melfa.
Si frugarono sotto la camicia, tirarono fuori i soldi.
– Preparate le vostre cose – disse il signor Melfa dopo avere incassato.
Gli ci vollero pochi minuti: avendo quasi consumato le provviste di viaggio, che per patto avevano
dovuto portarsi, non restava loro che un po’ di biancheria e i regali per i parenti d’America: qualche forma di pecorino qualche bottiglia di vino vecchio qualche ricamo da mettere in centro alla tavola o alle spalliere dei sofà. Scesero nella barca leggeri leggeri, ridendo e canticchiando; e uno si mise a cantare a gola aperta, appena la barca si mosse.
E dunque non avete capito niente? – si arrabbiò il signor Melfa. – E dunque mi volete fare passare il guaio?… Appena vi avrò lasciati a terra potete correre dal primo sbirro che incontrate, e farvi rimpatriare con la prima corsa: io me ne fotto, ognuno è libero di ammazzarsi come vuole… E poi, sono stato ai patti: qui c’è l’America, il dovere mio di buttarvici l’ho assolto… Ma datemi il tempo di tornare a bordo, Cristo di Dio!
Gli diedero più del tempo di tornare a bordo: che rimasero seduti sulla fresca sabbia, indecisi, senza saper che fare, benedicendo e maledicendo la notte: la cui protezione, mentre stavano fermi sulla spiaggia, si sarebbe mutata in terribile agguato se avessero osato allontanarsene.
Il signor Melfa aveva raccomandato – sparpagliatevi – ma nessuno se la sentiva di dividersi dagli altri. E Trenton chi sa quant’era lontana, chi sa quando ci voleva per arrivarci.
Sentirono, lontano e irreale, un canto. “Sembra un carrettiere nostro”, pensarono: e che il mondo è ovunque lo stesso, ovunque l’uomo spreme in canto la stessa malinconia, la stessa pena.
Ma erano in America, le città che baluginavano dietro l’orizzonte di sabbia e d’alberi erano città dell’America.
Due di loro decisero di andare in avanscoperta. Camminarono in direzione della luce che il paese più vicino riverberava nel cielo. Trovarono quasi subito la strada: “asfaltata, ben tenuta; qui è diverso che da noi”, ma per la verità se l’aspettavano più ampia, più dritta. Se ne tennero fuori, ad evitare incontri: la seguivano camminando tra gli alberi.
Passò un’automobile: “pare una seicento”; e poi un’altra che pareva una millecento, e un’altra ancora: “le nostre macchine loro le tengono per capriccio, le comprano ai ragazzi come da noi le biciclette”. Poi passarono, assordanti, due motociclette, una dietro l’altra. Era la polizia, non c’era da sbagliare: meno male che si erano tenuti fuori della strada.
Ed ecco che finalmente c’erano le frecce. Guardarono avanti e indietro, entrarono nella strada, si avvicinarono a leggere: Santa Croce Camerina – Scoglitti.
– Santa Croce Camerina: non mi è nuovo, questo nome.
– Pare anche a me; e nemmeno Scoglitti mi è nuovo.
– Forse qualcuno dei nostri parenti ci abitava, forse mio zio prima di trasferirsi a Filadelfìa: che io ricordo
stava in un’altra città, prima di passare a Filadelfìa.
– Anche mio fratello: stava in un altro posto, prima di andarsene a Brucchilin… Ma come si chiamasse, proprio non lo ricordo: e poi, noi leggiamo Santa Croce Camerina, leggiamo Scoglitti; ma come leggono loro non lo sappiamo, l’americano non si legge come è scritto.
– Già, il bello dell’italiano è questo: che tu come è scritto lo leggi… Ma non è che possiamo passare qui la nottata, bisogna farsi coraggio… Io la prima macchina che passa, la fermo: domanderò solo “Trenton?”… Qui la gente è più educata. Anche a non capire quello che dice, gli scapperà un gesto, un segnale: e almeno capiremo da che parte è, questa maledetta Trenton.
Dalla curva, a venti metri, sbucò una cinquecento: l’automobilista se li vide guizzare davanti, le mani alzate a fermarlo. Frenò bestemmiando: non pensò a una rapina, che la zona era tra le più calme; credette volessero un passaggio, aprì lo sportello.
– Trenton? – domandò uno dei due.
– Che? – fece l’automobilista.
– Trenton?
– Che Trenton della madonna – imprecò l’uomo dell’ automobile.
– Parla italiano – si dissero i due, guardandosi per consultarsi: se non era il caso di rivelare a un
compatriota la loro condizione.
L’automobilista chiuse lo sportello, rimise in moto. L’automobile balzò in avanti: e solo allora gridò ai due che rimanevano sulla strada come statue – ubriaconi, cornuti ubriaconi, cornuti e figli di… – il resto si perse nella corsa.
Il silenzio dilagò.
– Mi sto ricordando – disse dopo un momento quello cui il nome di Santa Croce non suonava nuovo – a Santa Croce Camerina, un’annata che dalle nostre parti andò male, mio padre ci venne per la mietitura.
Si buttarono come schiantati sull’orlo della cunetta perché non c’era fretta di portare agli altri la notizia che erano sbarcati in Sicilia.
Tratto da : Leonardo Sciascia, Il mare colore del vino, Torino, 1973, pp. 19-26
I Mari del Sud (Cesare Pavese)
Camminiamo una sera sul fianco di un colle, in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo mio cugino è un gigante vestito di bianco, che si muove pacato, abbronzato nel volto, taciturno. Tacere è la nostra virtù. Qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo – un grand’uomo tra idioti o un povero folle – per insegnare ai suoi tanto silenzio.
Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto se salivo con lui: dalla vetta si scorge
nelle notti serene il riflesso del faro lontano, di Torino. “Tu che abiti a Torino…” mi ha detto ” …ma hai ragione. La vita va vissuta lontano dal paese: si profitta e si gode,
e poi, quando si torna, come me a quarant’anni, si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono”. Tutto questo mi ha detto e non parla italiano, ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre di questo stesso colle, è scabro tanto
che vent’anni di idiomi e di oceani diversi non gliel’hanno scalfito. E cammina per l’erta con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino, usare ai contadini un poco stanchi.
Vent’anni è stato in giro per il mondo.
Se n’andò ch’io ero ancora un bambino portato da donne, e lo dissero morto. Sentii poi parlarne
da donne, come in favola, talvolta;
ma gli uomini, più gravi, lo scordarono.
Un inverno a mio padre già morto arrivò un cartoncino con un gran francobollo verdastro di navi in un porto
e augurî di buona vendemmia. Fu un grande stupore, ma il bambino cresciuto spiegò avidamente
che il biglietto veniva da un’isola detta Tasmania circondata da un mare più azzurro, feroce di squali, nel Pacifico, a sud dell’Australia. E aggiunse che certo il cugino pescava le perle. E staccò il francobollo. Tutti diedero un loro parere, ma tutti conclusero che, se non era morto, morirebbe.
Poi scordarono tutti e passò molto tempo.
Oh da quando ho giocato ai pirati malesi, quanto tempo è trascorso. E dall’ultima volta che son sceso a bagnarmi in un punto mortale
e ho inseguito un compagno di giochi su un albero spaccandone i bei rami e ho rotto la testa
a un rivale e sono stato picchiato,
quanta vita è trascorsa. Altri giorni, altri giochi,
altri squassi del sangue dinanzi a rivali più elusivi: i pensieri ed i sogni.
La città mi ha insegnato infinite paure: una folla, una strada mi han fatto tremare, un pensiero talvolta, spiato su un viso. Sento ancora negli occhi la luce beffarda dei lampioni a migliaia sul gran scalpiccìo.
Mio cugino è tornato, finita la guerra, gigantesco, tra i pochi. E aveva denaro.
I parenti dicevano piano: “Fra un anno, a dir molto, se li è mangiati tutti e torna in giro.
I disperati muoiono così”.
Mio cugino ha una faccia recisa. Comprò un pianterreno nel paese e ci fece riuscire un garage di cemento con dinanzi fiammante la pila per dar la benzina
e sul ponte ben grossa alla curva una targa-réclame. Poi ci mise un meccanico dentro a ricevere i soldi
e lui girò tutte le Langhe fumando.
S’era intanto sposato, in paese. Pigliò una ragazza esile e bionda come le straniere
che avevo certo un giorno incontrato nel mondo. Ma uscì ancora da solo. Vestito di bianco,
con le mani alla schiena e il volto abbronzato,
al mattino batteva le fiere e con aria sorniona contrattava i cavalli. Spiegò poi a me,
quando fallì il disegno, che il suo piano
era stato di togliere tutte le bestie alla valle
e obbligare la gente a comprargli i motori.
“Ma la bestia” diceva “più grossa di tutte,
sono stato io a pensarlo. Dovevo sapere
che qui buoi e persone son tutta una razza”.
Camminiamo da più di mezz’ora. La vetta è vicina, sempre aumenta d’intorno il frusciare e il fischiare del vento. Mio cugino si ferma d’un tratto e si volge: “Quest’anno scrivo sul manifesto: – Santo Stefano
è sempre stato il primo nelle feste
della valle di Belbo – e che la dicano
quei di Canelli”. Poi riprende l’erta.
Un profumo di terra e di vento ci avvolge nel buio, qualche lume in distanza: cascine, automobili
che si sentono appena; e io penso alla forza
che mi ha reso quest’uomo, strappandolo al mare,
alle terre lontane, al silenzio che dura.
Mio cugino non parla dei viaggi compiuti.
Dice asciutto che è stato in quel luogo e in quell’altro
e pensa ai suoi motori.
Solo un sogno
gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta,
da fuochista su un legno olandese da pesca, il Cetaceo,
e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole,
ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue
e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia. Me le accenna talvolte.
Ma quando gli dico
ch’egli è tra i fortunati che han visto l’aurora sulle isole più belle della terra,
al ricordo sorride e risponde che il sole
si levava che il giorno era vecchio per loro.