Arano è un madrigale composto da Giovanni Pascoli tra il 1885 e il 1886 e fa parte della raccolta Myricae. Il componimento, costruito con immagini fortemente evocative e raffinatezza pittorica, presenta un quadro di idillica vita campestre, tratteggiato con i colori malinconici dell’autunno (la vite al v. 1 infatti già sta diventando rossa), e in cui il lavoro dei contadini, descritto nella seconda terzina, si caratterizza per la placida armonia con il ritmo della Natura. Non manca l’attenzione al mondo animale; nella quartina conclusiva un passero e un pettirosso contemplano la scena dell’aratura.
Dal punto di vista formale, Arano si caratterizza per l’estrema cura con cui la materia apparentemente “umile” (in accordo con il proposito del poeta di cantare “humilesque myricae”, secondo la nota citazione dalla quarta Bucolica di Virgilio) dell’aratura e della semina dei campi diventa occasione per tessere un lieve ed elegante “bozzetto” di vita rurale, tutto giocato sulla resa impressionistica di suoni, colori, sensazioni. La prima tecnica utilizzata è quella del rallentamento metrico e sintattico: tutto il madrigale è composto da un unico periodo, che scorre dalle terzine alle quartine abbracciando il panorama naturale e umano sotto gli occhi del poeta. Al tempo stesso, Pascoli suddivide accuratamente la materia della descrizione nei tre blocchi di versi che compongono il madrigale, caratterizzando ogni strofe in maniera peculiare.
Nella prima terzina, a dominare sono gli aspetti visivi: il colore rosso delle foglie dell’uva che brillano e la sfumatura della nebbia che si alza dai campi, associati alla frequenza di vocali aperte e chiare e al tocco impressionistica, che, alla precisione del dato spaziale, preferisce l’atmosfera evocativa ed indefinita di questi tre versi.
Nella seconda terzina sono prevalenti le azioni lente e cicliche dei contadini, rese attraverso una sintassi paratattica, fortemente pausata dai segni di interpunzione e, dal punto di vista metrico, dal rallentamento degli enjambements ai vv. 4-5 e vv. 5-6 (oltre che dall’anafora di “lente” al v. 4).
Nella quartina conclusiva prendono corpo le sensazioni uditive, legate alle figure del passero e del pettirosso: il loro canto viene alluso, sul piano fonetico, dalla ricorrenza dei suoni di – s -, – t -, – r – e, sul piano delle figure retoriche, dal paragone tra il canto del pettirosso e il suono squillante delle monete d’oro, che ha un valore onomatopeico.
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